“Il caso serio” della Croce

Iniziamo la novena alla Beata Leonella Sgorbati continuando la riflessione sul martirio, oggi

Il “caso serio” per il cristiano sta nel fondare la sua fede sulla croce

Dopo il Concilio, nel clima generalizzato di ottimismo e di confusione, Hurs von Balthasar percepì il pericolo che nella chiesa si potessero perdere elementi essenziali dell’identità cristiana.

In uno scritto del 1966, intitolato Cordula, ovverosia il caso serio, von Balthasar, in forma radicale e al tempo stesso provocatoria, presentò il martirio come il segno più evidente dell’identità cristiana nella sua irriducibile alterità rispetto al mondo. Per Hurs von Bathasar l’identità cristiana, rispetto al mondo, trova la sua più autentica espressione nella capacità di donare la propria vita per amore.

Anche un grande filosofo ebreo, Abraham Joshua Heschel, rabbino deportato in campo di concentramento su un carro bestiame, aveva espresso una visione analoga, affermando che il martirio è il solo problema reale e serio della vita. «Esiste un solo problema reale e serio, quello del martirio. Si tratta della questione: c’è qualcosa di talmente valido che valga la pena di vivere per esso, qualcosa di abbastanza grande per cui valga la pena morire? Possiamo vivere la verità soltanto se abbiamo anche la forza di morire per essa». Per Heschel, infatti, il vivere vale la pena, se c’è qualcosa per cui vale la pena morire.

Il “caso serio” per il cristiano sta nel fondare la sua fede sulla croce. Cordula è, nella leggenda delle undicimila vergini che andavano incontro al martirio, colei che ha paura e si nasconde su una nave. Somiglia alla figura di Blanche de la Force, nei Dialoghi delle Carmelitane di Bernanos. La sua paura, tuttavia, dura soltanto una notte e nell’uscire inerme dal nascondiglio per accettare il martirio, sa di non consegnare la sua vita al fallimento, ma alla gloria.

Cordula è un’accusa contro quei cristiani che hanno smarrito il “caso serio”, il criterio fondamentale, il nucleo vitale, l’essenza del cristianesimo, che è la croce di Cristo.

Donare la vita significa metterla a disposizione, offrirla, perderla: incondizionatamente, senza riserve.

 

IL MARTIRIO NELLA MISSIONE

1 – la spiritualità del martirio nella missione. Ogni attività missionaria può essere occasione di martirio.

“L’Allamano affermava perentoriamente: “Un missionario deve sempre essere disposto al martirio, altrimenti non è un buon missionario; deve offrirsi vittima al Signore, disposto a qualsiasi sacrificio”(G. Inverardi, Martirio e missione, 16 settembre 1992). «Noi missionari siamo votati a dare la vita per l’umanità. Dovremmo servire la missione anche a costo della vita, contenti di morire sulla breccia».

Nasce da questa disponibilità la spiritualità del martirio nella missione. Essa interpreta la vita, la vocazione e le attività del missionario come un’offerta totale e irrevocabile alla causa di Gesù e del suo Regno. E’ il dono della vita durante la vita, nel quotidiano svolgersi dell’esistenza, che prevede già in anticipo la possibilità dell’effusione del sangue.

Il martirio, più che un’azione puntuale da vivere in un solo istante, è un atteggiamento dello spirito del vero testimone di Cristo, che prende coscienza di come questo dono non si improvvisi, ma che è dato come la conclusione perfetta di un lungo itinerario di donazione.

 

2 – il fondamento è l’Eucarestia

La dimensione che lega la vita donata con il martirio è l’Eucarestia. L’Eucarestia, facendo comprendere pienamente il senso della missione, spinge ogni credente, e specialmente i missionari, ad essere pane spezzato per la vita del mondo.

“Per Ignazio di Antiochia la dimensione sacrificale del martirio è in stretta relazione con l’Eucaristia proprio perché hanno la radice comune nella passione, morte e resurrezione del Signore Gesù. Si può ben dire che il martirio è un’Eucaristia: il martire si offre come pane e diventa egli stesso corpo di Cristo. E’ un pane che viene consacrato nel martirio” (G. Pellegrini, POM).

 

3 – Il martirio come processo in cui il cristiano diventa Eucaristia (J. Ratzinger, Eucarestia e missione, Opera Omnia, 11)

La morte testimoniale dell’Apostolo ha carattere liturgico, è un «essere versata» della vita come offerta sacrificale, un lasciarsi versare per gli uomini. Diventa litur­gia vissuta, che nella fede è riconosciuta come tale ed è essa stessa servizio per la fede.

Ciò a cui Paolo qui accenna in un’unica breve frase è sviluppato fino in fondo nel racconto del martirio di san Policar­po. Tutto il martirio è descritto come una liturgia, anzi come un diventare Eucaristia del martire, che entra in piena comu­nione con la Pasqua di Gesù Cristo e così diventa con Lui Eu­caristia.

Possiamo qui interpretare il martirio di Sr Leonella come celebrazione della sua vera Eucarestia.

Essa muore per l’altro, aiutando l’altro, versando il suo sangue nel grido “Perdono”. Tutta la sua vita viene dissolta, sembra persa, ma è proprio così che si compie l’offerta radicale, il do­no senza riserva di se stessa, unita a Cristo per la redenzione del mondo. Risorge!

 

4 – L’annuncio e la testimonianza: il martirio di ogni giorno

L’annuncio di Gesù Cristo e del suo Vangelo, insieme alla testimonianza di vita, resteranno sempre i campi privilegiati di battaglia per il missionario e possibile sorgente di martirio.

Cioè: ad alta voce proclama apertamente e con piena libertà la Parola di Dio, a cui si sente ormai irrevocabilmente consacrato. È la parresia. Sa gloriarsi sempre, davanti ai popoli, della croce di Cristo, della sua persona, della sua unica signoria. È la kaukes, il vanto che uno tira dalla croce di Cristo. E quando le tribolazioni pesano sulle sue spalle, non lascia spegnere il canto sulla sua bocca. Sempre spera. “La speranza che predichiamo ai poveri, la predichiamo per restituire loro dignità e per incoraggiarli a essere se stesso autori del proprio destino (O. Romero)”.

La missione ad gentes richiede alla Chiesa e ai missionari di accettare le conseguenze del loro ministero: la povertà evangelica, che conferisce loro la libertà di predicare il Vangelo con coraggio e franchezza; la non-violenza, per la quale essi rispondono al male con il bene (cfr Mt 5,38-42; Rm 12,17-21); la disponibilità a dare la propria vita per il nome di Cristo e per amore degli uomini” (Benedetto XVI, Discorso al Consiglio superiore delle POM, 21 maggio 2010).

 

5 – Servire con umiltà: il martirio dell’ego

Lentamente, va elaborandosi in noi, mediante un processo inconscio ma preciso e mirato, un progetto di vita che mette “l’io” al centro, facendogli ruotare attorno idee originali, attività creative e brillanti realizzazioni a tutti i livelli.

E’ necessario un atteggiamento diverso per essere veri missionari oggi. E’ necessario morire a se stessi. Giovanni Paolo II vedeva nella santità la vera identità del missionario (cfr RM  90 ), e l’umiltà, il nascondimento, può aiutarci a ritrovare questa via che il missionario deve percorrere. Dobbiamo infatti imparare da Gesù, “mite e umile di cuore” a fare missione.

“Ecco, l’umiltà è la coraggiosa conoscenza di sé davanti a Dio e davanti al Dio che ha manifestato la sua umiltà nell’ abbassamento del Figlio, nella kénosi fino alla morte di croce. Ma in quanto autentica conoscenza di sé, l’umiltà è una ferita portata al proprio narcisismo, perché ci riconduce a ciò che siamo in realtà, al nostro humus, alla nostra creaturalità, e così ci guida nel cammino della nostra umanizzazione, del nostro divenire homo. Ecco l’humilitas: «O uomo, riconosci di essere uomo; tutta la tua umiltà consista nel conoscerti» (Agostino)” (E. Bianchi, L’umiltà, una virtù sospetta).

 

6 – Dare la vita per amore di Cristo e dei fratelli

Conviene ricordare come il missionario sia chiamato a dare la sua vita nel quotidiano della missione, ad essere il buon pastore che nutre e conduce le sue pecore e a non abbandonarle quando si presenta il lupo. Il missionario non scappa davanti a situazioni difficile e pericolose: è pronto, come il buon pastore, a dare la sua vita per difendere il gregge.

Sr Leonella, mentre curava i malati, ha dato il suo sangue. E’ morta dissanguata insieme al suo “angelo custode”, il musulmano Mohamed Mahamud, ripetendo per tre volte “Perdono, perdono, perdono”. Aveva come obiettivo di spendersi per gli altri: «Non abbiamo che una vita da donare – ripeteva -, doniamola senza esitare: chi dà la sua vita la ritroverà. Dopo la nostra morte solo l’amore sopravviverà». Nel suo ospedale, oggi ancora, i bambini di Somalia continuano a nascere.

La compartecipazione alla croce di Cristo rende il missionario solidale nella redenzione dell’umanità.

“Un giorno la beata Giovanna Francesca di Chantal disse: «Vi è un altro martirio, il martirio di amore, nel quale Dio, mentre sostiene in vita i suoi servi e le sue serve perché si spendano per la sua gloria, li rende insieme martiri e confessori».
( Francoise-Madeleine de Chaugy, Mémoires sur la vie et les vertus de sainte J.F. de Chantal, III, 3, 3 éedit., Paris, 1842, pp. 314-319)

 

7 – L’impegno per la carità, giustizia e la pace: il martirio contemporaneo

Il missionario denuncia le ingiustizie che vengono compiute verso tanti figli e figlie di Dio, ed si impegna per la promozione della giustizia nell’ambiente sociale in cui opera. Il Vangelo si rende operante attraverso la carità, che è gloria della Chiesa e segno della sua fedeltà al Signore.

  1. G. Inverardi, nella lettera circolare Martirio e missione, del 16 settembre 1992, affermava: “Il martirio è stimato dalla chiesa come dono insigne e suprema prova di carità (Cf LG 42)”.

Sul modello di Maria, sollecita del bene dell’umanità, la Missione tende all’instaurazione del Regno di Dio amore, bontà, misericordia.

Non è difficile vedere l’intima correlazione che esiste tra la consolazione – liberazione – promozione e la Missione. Nel nostro metodo di evangelizzazione si sono sempre accordate le componenti di evangelizzazione e promozione umana.

Si tratta, come dice il Concilio Vaticano II, di mettere al centro la relazione con l’uomo e le culture, le loro speranze i loro problemi. «L’uomo è la prima fondamentale via della Chiesa» (RM 14).  In altre parole, la missione si rivolge a tutti, impegnandosi nella promozione umana e sociale di ogni persona, proponendo i valori del Regno (RM 34), ricercando i “germi del Verbo” (AG, 11/1112) e i “beni spirituali e morali e i valori socio-culturali” (NA, 2/586), che lo Spirito Santo ha seminato nelle culture e nelle popolazioni, anche al di fuori della Chiesa.

8 – Dialogo e interculturalità: il martirio nuovo

Vivere con gli altri non è facile. Anche questa realtà quotidiana del missionario può essere occasione di martirio, di morte a sé stesso, di abnegazione, per stimare l’altro più grande di sé.

Non siamo chiamati a vivere da soli, ma con gli altri. E’ in questo rapporto con gli altri che troviamo noi stessi, la nostra identità di comunità religiosa e missionaria. Nasce da qui l’imperativo, elaborato dalla riflessione teologica del dopo Auschwitz: “Sii quel che sei per avvicinarti a chi non sei”.

” In mezzo a tanta confusione e lotta per la vita, noi continuiamo a lavorare per la pace attraverso il processo penoso del dialogo. E’ solo nel dialogo che diventiamo noi stessi più ricchi e arricchiamo gli altri della nostra esperienza religiosa. Noi continuiamo a proclamare la speranza, convinti che la trasformazione nostra e del mondo non è l’effetto immediato di una decisione o di un evento storico, ma l’impegno di tutti i giorni per la vita. Anche l’esperienza di dialogo si pone in questa dimensione di speranza che va al di là delle frustrazioni di tutti i giorni. Se cessassimo di dialogare perderemmo l’abilità di immaginare metodi di resistenza e modi di sostenersi a vicenda nella lunga lotta per la giustizia e la verità; perderemmo l’abilità di sperare e amare in tutte le forme”. (P. Salvatore Carzedda, missionario del PIME, ucciso nelle Filippine nel 1992)

Anche suor Leonella e Mohamed hanno lasciato un messaggio: i cristiani e i musulmani che cercano di condividere la vita devono mettere in conto la possibilità di unire il proprio sangue nel martirio. Solo il dialogo apre un futuro.

La vita dell’uomo non è mai concepibile senza l’altro..

L’altro infatti si presenta come un Tu, un volto, irriducibile al mio. Dialogare con l’altro è necessario, e significa affrontare la sua realtà e farsene carico nella vita vissuta.

Nella società liquida e multietnica attuale, è necessario vivere la missione dando rilievo all’interculturalità.

 

9 – La conformazione a Cristo

Lasciandosi guidare dallo Spirito in un incessante cammino di purificazione, i religiosi diventano, giorno dopo giorno, persone cristiformi, prolungamento nella storia di una speciale presenza del Signore risorto.

La sequela Christi è la sequela dell’Agnello immolato. Nella chiesa apostolica era profondamente radicato questo concetto, espresso mirabilmente nella seconda lettera che Paolo scrive a Timoteo: “Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati”(3, 12).

Nella comunione con Gesù, i missionari non temono la sofferenza, la rinuncia e perfino la perdita della loro vita. Passando attraverso la grande tribolazione, essi lavano le loro vesti nel sangue dell’Agnello per godere eternamente la visione beata di Dio.

Veramente la vita missionaria costituisce la memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato di fronte al Padre e di fronte ai fratelli.

 

P. G. Ronco, imc

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